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Assenza: Riflessioni sparse a fine Anno Accademico

Le lezioni sono terminate e quest’anno, a differenza degli altri anni, è tutto diverso. Il senso di sospensione e di vuoto improvviso che da docente ho sempre percepito in questo periodo, oggi si presenta con una veste nuova se pur consueta. E’ mancato l’impatto fisico che la presenza dell’altro genera, sono mancate le giornate convulse di richieste, di occhi interroganti, di odori che segnano il cambio di stagione, di eccitazione per la fine delle lezioni. Tutto si è svolto filtrato da uno schermo che ha gelato la vibrazione fisica che l’incontro dei corpi genera, un diaframma invisibile eppure concreto, asettico, capace di generare un distanziamento emozionale oltre che fisico. Gli occhi che perdono leggibilità, gesti che non sono accompagnati dal corpo, tutto è alterato in uno spazio temporale strozzato dentro il quale è difficile far passare la naturalezza dello stare insieme. Tutto ciò che la vicinanza dei corpi rende possibile senza sforzo adesso è da cercare, da ricostruire senza conoscerne consapevolmente la natura intima e spontanea che la caratterizza. Così questo nuovo strumento della didattica a distanza ha svelato tutte le sue fragilità non solo per i bambini , per gli adolescenti ma anche per gli adulti e vorrei dire forse per noi anche di più.
Dopo un primo tempo di eccitante entusiasmo per le possibilità che questi strumenti ci davano in quel momento di solitudine forzata, ci siamo progressivamente ingessati dentro rinunciando molto spesso all’energia vitale che ti restituisce la vibrazione della voce altrui sulla tua pelle, l’incalzare di una discussione che ti anima dentro e che si esprime con tutto il corpo, con lo sguardo…questo progressivo appiattimento ha smorzato l’aurosal che naturalmente emerge in presenza lasciando un vuoto personale e collettivo che da sole, le parole, non riescono a colmare.
E proprio le parole che così tanto fanno parte delle mie lezioni di pedagogia musicale adesso risuonano in una collettività virtuale che si mostra in piccole finestre appiattite degli schermi e mi chiedo se saranno ancora capaci di aprire squarci, sguardi nuovi, e se trasmetteranno ancora l’entusiasmo e l’amore per il sapere e per la bellezza di questo lavoro.
Tutti ci siamo sforzati di far vivere i nostri interventi, le nostre istanze, le domande con un impegno lodevole ma che, almeno in me, ha lasciato un senso di assenza, di vuoto atipico con il quale fare i conti e riflettere allo stesso tempo.
Come e cosa è cambiato in questi mesi nel rapporto con gli studenti? Come sono cambiati i rapporti fra di noi e fra di loro? Come e cosa potremo ripercorrere quando e se ci rivedremo insieme? A quali domande daremo risposte? E quanti interrogativi resteranno sospesi?
Tutto questo disagio è stato comune nei vari ordini di scuole ma nei Conservatori di musica a mio parere ha subito una risonanza più profonda e sorda chiusa ancora di più nell’ isolamento di ciascuno, nell’ego centratura solitaria che lo studio musicale nutre da sempre. Ciascuno impegnato a sistemare le proprie difficoltà che questo isolamento ha generato e tutti insieme, negli incontri sulle diverse piattaforme, a cercare in tutti i modi di dar vita ad una “normalità” sapendo fin troppo bene che non poteva esserlo e in questo gioco ognuno ha cercato una propria via di uscita che in qualche modo potesse restituire la legittimità consueta e condivisa all’interno dei diversi ruoli tra studenti e docente. Ma eravamo tutti noi a non essere più quelli di prima… eppure, come in tutti i giochi di regole sapevamo che era importante confermare le reciproche aspettative per mantenere almeno qualcosa di saldo e certo nonostante la navigazione nella vita personale di ognuno emotivamente incerta e a volte confusa. Certo è stato uno sforzo lodevole ma sempre di sforzo si parla e come questo impegno abbia toccato la sensibilità dei singoli è difficile da dire così come quanto ne siamo rimasti soddisfatti o addirittura intimamente rigenerati. In tutto questo la musica ha segnato ancor di più il confine fra le persone assicurando quello spazio di solitudine e di autoreferenzialità che in modi diversi caratterizza il nostro essere musicisti. Uno spazio senza parole per sua natura intrinseca dove si può dar vita autonomamente a modi nuovi nel silenzio connotato dei suoni che siamo in grado di generare. In questa bolla di autocompiacimento può non esserci lo spazio per la relazione con l’altro, per l’interazione che smuove e scuote le certezze personali. Tutto il mio lavoro come docente è proprio quello di sollecitare una sensibilità che permetta di vedere il nesso profondo tra la qualità delle relazioni interpersonali nel gruppo e l’apprendimento personale e collettivo. Le influenze reciproche sia in termini di scambi e legami fra i protagonisti dell’azione didattica quanto creato dal clima e dalla qualità delle relazioni e interazioni reciproche capaci di generare delle trasformazioni profonde.
Ma in questa condizione di lezioni “in vitro” cosa sarà passato di tutto questo?
Il proprio turbamento emotivo quanto è stato in grado di scuotere relativamente al piacere di condividere insieme anche se a distanza ? Quante fragilità emotive hanno minato il ben-essere che in ogni incontro cercavo di creare? Cosa può davvero un insegnante, in queste condizioni, nella relazione con i suo studenti adulti?
In tutte le parole e considerazioni che sono state scritte in questo periodo forse poche riflessioni si sono spese dentro al mondo degli adulti che studiano e che l’hanno fatto in modalità a distanza.
Come i bambini e gli adolescenti gli adulti hanno affrontato la situazione con preoccupazioni nascoste, mostrando a sé e agli altri una sicurezza spesso fragile dove sono emerse, a volte senza controllo volontario, tutte le fragilità personali. Gli adulti che studiano hanno, come i giovani , il bisogno d’incontrare sé stessi e questo incontro accade nel momento in cui l’altro ti rispecchia il positivo che c’è, che crede in te e che fa il tifo per te. Costruire una consapevolezza che permetta di percepire la presenza di tutto ciò che è utile per affrontare le nuove sfide del futuro senza paura in un’apertura serena e stimolante verso il nuovo. Questa continua rigenerazione del sé accade, con tempistiche individuali, nella relazione interpersonale tra docente e studenti producendo una trasformazione continua che si genera nel corpo perché la didattica autentica è sempre attraversata dal corpo, dall’energia capace di reinventare gli oggetti del sapere. Certamente nei nostri incontri a distanza il corpo è stato il grande assente, escluso forzatamente e mi chiedo: se il corpo è un’unità stretta con il pensiero ed il sentire, se la conoscenza è un’azione emotivamente connotata, cosa resterà di tutto questo nella memoria dei nostri tessuti ?

Alessandra Seggi

Recensione: Daniela Lucangeli: cinque lezioni leggere sull’emozione di apprendere ed Erickson,2020, pg 109

Ci sono varie recensioni di questo libro benché sia uscito da pochi mesi ma ho deciso di scriverne una anch’io principalmente per due motivi: il primo è che mi sono ritrovata moltissimo, sul piano professionale, nelle considerazioni che l’Autrice espone e il secondo è la possibilità di trasferire questi concetti e riflessioni sul versante specifico dell’insegnamento musicale agli adulti.
L’Autrice si riferisce al mondo dei bambini ed è il loro mondo ad essere protagonista in queste pagine ma anche qui è possibile individuare i fili che collegano il mondo dell’infanzia con quello dei giovani prima e degli adulti poi. Nel mio lavoro ho a che fare sempre con giovani e adulti che studiano il modo migliore di predisporre percorsi musicali da insegnare e da esperire nella pratica didattica e per questa ragione ho pensato di trasferire i tanti stimoli che ho ricevuto da questa lettura anche nel mondo degli adulti.
In linea con le considerazioni fin qui espresse lo sguardo in questo scritto, si focalizzerà su alcuni aspetti che, a mio parere, sono evidentemente cedibili all’area musicale non solo nell’età infantile ma anche in età adulta.
Nella recensione seguirò lo stesso schema proposto dall’Autrice soffermandomi sulle prime quattro lezioni escludendo l’ultima “Tutti bravi con i numeri”.
Lezione 1
La scuola dell’abbraccio
Le argomentazioni dell’Autrice si aprono a partire dalla relazione tra “fare errori e sentirne la sofferenza” e sul perché, una volta eliminato l’errore la sofferenza provata resta. Un dato che emerge evidente è che nella “vita psichica non c’è nessun atto che sia solitario: è specifico ma non isolato” questo include non solo atti cognitivi ma anche le emozioni che ciascuno di volta in volta prova. “Le emozioni sono, dunque, corrente neuroelettrica ed essa lascia una traccia: scrive nella nostra memoria.” Nella nostra vita ricerchiamo le esperienze che ci fanno sentire bene e questo attiva il “meccanismo di ricerca” proprio per aspirare ancora a quello che ci fa star bene; al contrario le emozioni come la paura, l’angoscia, il senso di colpa e la vergogna “producono reazioni che rimangono più a lungo nel circuito” proprio per ricordarci di qualcosa che non è buono per noi, da sfuggire, da schivare e tali reazioni “diventano memoria dell’alter”. Così agendo il dolore come la paura si ricordano proprio per difenderci ed evitarli in seguito a protezione di noi e delle generazioni future. “Quando io temo, mi spavento, mi ritraggo: quando non mi fido e mi sento vulnerabile, è perché ricordo esperienze che ho classificato come negative”.
Ecco la paura dell’errore associata ad emozioni spiacevoli. “ Se gli errori che i bambini compiono a scuola causano dolore, perché accompagnati da emozioni sgradite ,l’alert che si stabilisce nella loro memoria è Scappa, non è Affronta l’errore e modificalo”. Perciò se al dato oggetto di studio si associa un’emozione di paura “ si genera un cortocircuito: il bambino ritrova quello che ha memorizzato a livello di conoscenza, ma anche l’emozione che lo invita a starne lontano”. Il senso di colpa insieme alla paura così come alla vergogna legittimano tutti gli atteggiamenti di fuga e rifiuto.
A questo punto ci sono già moti spunti di riflessione che come insegnanti musicisti è necessario prendere in considerazione. In prima istanza includere negli atti cognitivi le emozioni che lo studente prova; sentire la sofferenza degli errori come qualcosa che condiziona la nostra esperienza è un dato che troppo spesso nella pratica musicale viene ignorato. Le immagini dello studio fatto di sofferenza e sacrificio sono dei luoghi comuni che stentano a scomparire dalle nostre aule. Con la stessa logica includere nei processi di apprendimento musicale esperienze che liberino dalla paura dell’errore permetterebbe di attivare un meccanismo di alleanza docente-studente tale da non far sentire quest’ultimo solo e impotente nella difficoltà.
L’Autrice parla inoltre di “interruttori emozionali” intendendo atti, contatti fisici in grado di modificare la produzione di ossitocina, conosciuta come “ormone della relazione” che “ sembra essere anche collegata ai sentimenti di fiducia tra gli esseri umani; inoltre capace di ridimensionare i comportamenti di paura e di ansia e ridurre lo stress: limitando l’ansia sociale, infatti, permette la costruzione di relazioni migliori.”
Come attivare questi interruttori emozionali nella lezione di musica?
Il contatto fisico sappiamo quanto è determinante, un gesto che accoglie, anche una mano che si appoggia sulla spalla e già non ti senti più solo; anche se con gli adulti può essere meno spontaneo che non con un bambino lo studente maggiorenne ne ha bisogno in egual misura e forse a volte anche di più. “L’abbraccio è molto potente, la carezza lo è altrettanto, ma anche il semplice tocco ha importanti conseguenze a livello psicofisico: solo toccando una persona provochiamo una diminuzione del battito cardiaco, della pressione sanguigna, del cortisolo e un aumento dell’ossitocina”.
Oltre ai gesti si può accogliere con lo sguardo, con il sorriso così come si può abbracciare con la voce: “il tocco, lo sguardo, il sorriso, la voce : sono tutti elementi che incoraggiano lo studente quando si trova in uno stato di fatica, perché lo fanno sentire accompagnato da un alleato che lo aiuta e lo sostiene nel risolvere le sue difficoltà”.
Ma quante volte, noi insegnanti includiamo nelle nostre lezioni questi preziosissimi elementi?
Per non parlare dell’allegria, la gioia, ridere che “induce il nostro cervello a produrre endorfine, considerate come gli ormoni della felicità visto che portano a un’attenuazione delle sensazioni di dolore e a un generale buon umore, che ha effetti positivi sul nostro corpo e sulla nostra mente”.
L’insegnate può e anzi dovrebbe essere allegro e lo dovrebbe essere insieme ai suoi studenti per instaurare un clima di ben-essere capace di produrre per entrambi un senso di autoefficacia infondendo energia, curiosità , motivazione e autorealizzazione da ambo le parti.
Un processo di apprendimento si consolida se include una “sincronicità fra le informazioni e le memorie emozionali”.
Perciò alla luce di queste importanti riflessioni non si tratta di insegnare ciò che sappiamo ma piuttosto di creare un contesto nel quale lo studente, con noi, possa esplorare senza paura del giudizio, dell’errore, apprendendo con curiosità, buon umore e piacere in maniera creativa e personale. Quindi non solo non serve proprio a nulla essere severi, adirati e distanti ma è anche controproducente e dannoso!
Come scriveva Gianni Rodari: “Vale la pena che un bambino impari piangendo quello che può imparare ridendo?” se sostituiamo bambino ad adulto non è forse la stessa cosa?
Eppure quante lacrime si versano nello studio della musica, da bambini come da adulti…ma siamo sicuri che servano a qualcosa? Leggendo questo libro, ad ulteriore conferma, direi proprio di no!

Lezione 2
Sbagliando s’impara
“La mente non può non sbagliare. Diversi studi recenti hanno dimostrato addirittura che l’errore rappresenta una vera e propria fase dell’intelligere umano.” L’Autrice indica tre fasi del flusso cognitivo dell’intelligere: assimilazione “da fuori a dentro”, l’elaborazione interna della persona ed infine la restituzione “da dentro a fuori”. Se l’errore rappresenta un punto di “fatica” nell’elaborazione delle informazioni “il suo significato cambia completamente: da conseguenza di una colpa o sintomo di una patologia l’errore diventa la chiave di accesso alla comprensione del percorso cognitivo del bambino”.
Lo stesso principio vale per l’adulto e in questo senso è compito dell’insegnante attivare strategie, proporre indicazioni didattiche utili affinché lo studente possa trovare soluzioni più congeniali e supporti atti a superare l’ostacolo ottimizzando le proprie risorse e alimentando un processo di empowered passando da una situazione di svantaggio ad un rafforzamento delle proprie capacità sviluppando autostima ed efficacia. L’insegnante deve prendersi cura della motivazione del proprio studente e attivarsi per sostenerla anche nell’adulto: se è vero che da grandi la motivazione intrinseca è un motore indispensabile per affrontare le novità è altrettanto vero che il ruolo e direi il valore di chi insegna è anche quello di far innamorare alla propria disciplina.
Ma come si può fare in concreto?
L’insegnante , propone l’Autrice, è come un catalizzatore cioè “rende più facile una trasformazione fondamentale” sostenendo e aiutando lo studente a ottimizzare il proprio potenziale in un clima di fiducia e di stima reciproca, dove il supporto fornito è presente ma allo stesso tempo lascia libero l’altro di muoversi autonomamente con il proprio passo.
Quanta preoccupazione abbiamo sul programma da svolgere piuttosto che sul ben -essere che riusciamo a creare! In musica la possibilità di valorizzare la propria modalità espressiva è ancora più evidente e direi necessaria: un insegnante che tiene in considerazione lo stile del proprio studente di musica, senza giudizio, e che si cura di non produrne un proprio clone rappresenta la dimensione più autentica per tracciare nella memoria la serenità necessaria per lasciare fuori dalla porta l’ansia da prestazione e la paura. Così avremo un insegnamento costruito sul piacere, la curiosità e la motivazione in una logica che sappia contemplare non solo la dimensione razionale dell’apprendimento ma anche la dimensione emotiva ed affettiva.
Gli insegnanti “devono imparare a godere dell’intelligenza del bambino come di un flusso in continuo movimento, capace di assorbire, rielaborare e restituire contenuti in modo creativo e socialmente costruttivo”. Così anche per l’adulto che s’iscrive in Conservatorio per studiare musica: nell’apprendimento le strutture cognitive procedono attraverso azioni e retroazioni continue che includono il corpo come unità con il pensiero ed il sentire, dove ogni azione è conoscenza emotivamente connotata. Per agevolare tutto questo l’insegnante non dovrà sovrapporsi allo suo studente ma al contrario lasciarsi sorprendere essendo disponibile a lasciar accadere le cose, ad osservarle senza fretta lasciando che sia lui, con le sue proprie modalità, a completare l’azione musicale sul suo strumento.

Lezione 3
Verso il successo scolastico
Come possiamo nutrire la voglia di studiare? Secondo Albert Bandura che ha elaborato e studiato il concetto di autoefficacia c’è una strettissima relazione fra le capacità soggettive ed i pensieri che ognuno di noi collega incluse le emozioni e la motivazione. “Chi si percepisce efficace affronta i compiti difficili con la consapevolezza di poterli completare con successo…quindi è più portato a perseverare anche difronte a degli ostacoli.”
E quindi? Se già nelle prime fasi dell’apprendimento musicale il nostro studente sperimenterà la gratificazione anche i pensieri conseguentemente riusciranno con successo a sostenerlo altresì nei momenti difficoltà. Questo non significa ottenere dei risultati senza impegno ma al contrario essere consapevole di avere ciò che è utile per affrontare le nuove sfide del futuro. Conseguentemente la paura di sbagliare o peggio di fallire non risulterebbe più essere sinonimo di mancanza di capacità “non sono più io ad essere sbagliato, ma l’approccio che ho utilizzato”. Da questo punto di vista è la percezione del compito che lo studente dovrebbe avere: qualcosa che è alla mia portata, una difficoltà che posso incontrare, che è fattibile e che posso risolvere da solo.
Ovviamente l’insegnante dovrà resistere, fermarsi, sia con le parole giudicanti o peggio svalutanti, sia con la tentazione di sostituirsi sovrapponendosi all’allievo.
“Ti faccio vedere come si fa. È così facile!” quante volte ci siamo sentiti dire queste parole dal nostro insegnante di musica.. e quanto queste parole ci hanno detto implicitamente “tu non sei capace nemmeno di fare questa cosa così semplice, lascia stare faccio io che faccio prima”. Come dire : dato che non ti riesce ti aiuto e mi sostituisco a te.
Mi viene da pensare a tutte le scuole di pedagogia musicale che fin dai primi dell’800 mettevano in guardia il docente dall’ esplicitare giudizi svalutanti nei confronti degli allievi e delle produzioni musicali originali che andavano creando. La Montessori, la Bassi, la Ward fino a Kodaly, Orff, Dalcroze tutti, sempre, valorizzando le creazioni originali degli studenti , stimolando la creatività musicale senza boicottare, o giudicare nessuna produzione …peccato aver perso, troppo spesso, per strada questa stima e rispetto per l’altro a prescindere dall’età e dalle sue abilità.
“Per accendere la motivazione ad apprendere è quindi molto importante capire la relazione tra l’azione e l’obiettivo che il soggetto ha; l’obiettivo può essere consapevole o non consapevole, ma esiste sempre , ed è quello che spinge all’azione.”
Questa affermazione la trovo particolarmente aderente al mondo degli studenti di musica adulti e condivido il pensiero dell’Autrice di un processo formativo che attraversa e suggestiona entrambi i protagonisti della relazione, che sollecita l’autonomia e la capacità di darsi degli obiettivi autoregolando il proprio processo di studio in sincronia con il proprio stile espressivo.
Contagio emotivo, ascoltare, ascoltarsi, empatia tutto ciò è indispensabile e imprescindibile in una lezione di musica in particolare dove la qualità del sentire i suoni e di come ci sentiamo noi con i suoni è la consapevolezza che ci è utile praticare sia individualmente che collettivamente.
Lezione 4
Star male a scuola
“Perché i ragazzi stanno male?” l’Autrice indica alcune tra le possibili cause fra cui l’inadeguatezza del carico cognitivo sia in termini di quantità che di qualità: troppo spesso si chiede di memorizzare procedure e regole piuttosto che sviluppare competenze individuali e questo in musica accade di frequente: si anticipa la teoria a discapito dell’esperienza diretta.
La ricerca s’interroga da tempo sulla capacità immediata di far musica da un lato e dall’altro sull’acquisizione delle conoscenze utili a leggere e scrivere la musica. Si parla di Apprendimento informale cioè senza insegnamenti specifici ma facendo pratica per mezzo dell’imitazione iniziale per poi, sempre attraverso l’esperienza diretta arrivare alla pratica della lettura e scrittura della musica. Se queste esperienze accadessero almeno qualche volta nelle lezioni di strumento avremo un’occasione per nutrire il piacere di far musica, di comunicare in modo libero, giocoso esprimendo ciascuno la propria musicking ( C. Small 1998) intesa come capacità di partecipare al processo collettivo e interattivo del fare musica.
In tutte le metodologie storiche musicali, dalla Bassi a Gordon, si afferma il valore formativo ed espressivo dell’improvvisazione quale luogo di esperienza libera di ascolto e produzione originale collettiva in assenza di errore e di giudizio. Anche qui l’insegnante sarà un facilitatore in grado di abbandonare l’idea di controllo e di essere partecipe e complice fiducioso delle capacità elaborative del gruppo classe in un clima di “sicurezze senza sicurezze”.
“Quindi un insegnante che vuol far crescere l’intelligenza deve seminare l’intelligenza; se vuol far crescere il benessere, deve seminare il benessere; se vuol far nascere la fiducia , deve seminare la fiducia.” Il problema è saper agire per primi, essere più che conoscere, coltivare la dimensione collettiva per conquistare un sapere condiviso e mediato dal gruppo. Troppo spesso la dimensione intersoggettiva del fare musica non viene curata abbastanza mentre verbalizzare insieme le difficoltà come i successi rappresenta una grande opportunità di scambio e confronto utile, stimolante e motivante allo stesso tempo. Ovviamente si riuscirà a creare un clima di questo tipo se lasciamo fuori dalla porta la competizione e la rivalità fra studenti: vedere l’altro come concorrente innesca un meccanismo di protezione, un atteggiamento difensivo che ben poco a che fare con la collaborazione ed il far musica insieme. Sarà necessario non incentivare la paura ed il giudizio che implica la sensazione di non riuscire, di non essere capace da soli ma al contrario stimolare il senso di appartenenza ad una comunità che insieme studia e cresce l’uno con il sostegno dell’altro.
Così come l’alleanza fra studenti, e quella fra docente-studente, rappresentano un bene troppo prezioso per non prendersene cura e adoperarsi per far si che non venga mai meno nelle nostre lezioni.
Mi piace concludere questo scritto con l’invito, per tutti noi che ci occupiamo di formazione, di mettersi in gioco come dice l’Autrice con il coraggio e con il cuore e di sentirsi parte di una collettività dove ciò che insegniamo è meno di tutto ciò che ogni giorno impariamo dai nostri studenti.

Alessandra Seggi

Recensione Alice Mado Proverbio: Neuroscienze cognitive della musica Il cervello musicale tra arte e scienza Ed Zanichelli 2019 Pg 211

Leggere questo libro è un po’ come avventurarsi in un viaggio dentro l’universo costituito dai diversi meccanismi cerebrali che caratterizzano l’esperienza sonora nella sua complessità.
L’autrice nei tredici capitoli analizza e argomenta i tanti aspetti del far musica attraverso l’elaborazione che ne fa il nostro cervello.
Il saggio è molto affascinante e mi sento di consigliarne lo studio a chiunque si occupi di musica proprio per l ‘importanza che, nella pratica musicale, ha la conoscenza dei meccanismi neurologici che caratterizzano il fare musica stesso.
In questa recensione ho ridotto al minimo i dati squisitamente tecnici e neuroscentifici rimandando allo studio del libro per una consapevolezza più specifica e dettagliata.
Proprio per la complessità e la grande varietà di dati e ricerche presenti nello scritto, ho pensato di stimolare la curiosità verso il testo proponendo una recensione atipica che permetta al lettore di compiere un percorso random tra le diverse parti del libro.
Proverò ad accennare alcuni temi come in un glossario: ogni lettera sarà l’iniziale di un argomento specifico.

A come Ascolto di musica nel neonato: Gli studi hanno dimostrato che l’ascolto del canto materno ha un effetto tranquillizzante per il neonato: regolarizza il suo respiro e riduce il cortisolo (l’ormone dello stress). La musica in generale diventa un tramite, un “contatto extracorporeo tra genitore e bambino soprattutto nei neonati prematuri che si trovano nell’incubatrice privati delle sensazioni tattili olfattive della mamma”. E’ stato dimostrato che l’ascolto di ninna nanne aumenta l’ossigenazione dei piccoli e migliora lo stato fisiologico ed emotivo generale.

B come benessere: Fare musica da adulti o nella terza età può contribuire a contrastare il declino cognitivo, a riabilitare e ad incrementare il benessere generale della persona riducendo le sintomatologie depressive e migliorando la qualità dell’umore. Fare musica e cantare contribuisce favorisce la socializzazione così come il senso di appartenenza ad una comunità migliorando l’autostima e la capacità di esprimersi emotivamente. “L’esercizio musicale migliora la qualità di vita degli anziani a prescindere dalle specifiche capacità cognitive”.

C come Cervello del musicista: Oggi sappiamo che “lo studio precoce e duraturo di uno strumento musicale può produrre cambiamenti macrostrutturali nel volume di determinate strutture del cervello come: il corpo calloso, la corteccia motoria e uditiva e il cervelletto”. L’adattamento cerebrale allo studio musicale segue tre principi che sono:” l’inizio della formazione musicale da piccoli, il tempo dedicato allo studio di pratiche motorie bimanuali complesse e la conseguente modifica delle rappresentazioni delle mappe motorie”.

D come Direzione dello sguardo dei cointerpreti: La direzione degli sguardi e i movimenti oculari sono certamente i mezzi che i musicisti utilizzano per comunicare un’intenzione durante l’atto performativo. “È stato dimostrato che lo spostamento dello sguardo di un’altra persona sposta automaticamente la nostra attenzione verso il punto fissato da quest’ultima”. Ovviamente anche il corpo come la postura contribuiscono ad orientare l’attenzione di chi guarda e tutto questo accade in modo inconsapevole in quanto abituale comportamento di natura sociale. “Questo dato suggerisce l’estrema importanza dei sistemi di rispecchiamento visuomotorio nella coordinazione sociale dell’azione”.

E come Esecuzione meccanica vs espressiva : Quale può essere sul piano oggettivo la differenza tra un’esecuzione meccanica e una espressiva?
Certamente la capacità dell’interprete di modulare, in modo imprevedibile e personale, l’esecuzione proponendo micro varianti agogiche, dinamiche, timbriche, ritmiche, ecc che possano dilatare o contrarre lo spazio temporale. Tutto questo ambito d’azione restituisce all’ascoltatore un’unicità tipicamente umana tanto quanto emozionante e piacevolmente sorprendente che si differenzia moltissimo da un’esecuzione prodotta da un sintetizzatore. “I risultati mostrano una maggiore risposta delle aree emotive del cervello (sistema limbico e paralibico) in risposta alle dinamiche espressive della performance musicale umana, insieme ad attivazioni legate al piacere provato (sistema neurale della ricompensa).”

F come Film e musica: La musica può connotare positivamente o negativamente un personaggio di un film in relazione al brano a cui viene collegato. Questa potenzialità è fortemente utilizzata nella pubblicità per associare un prodotto ad uno spot in grado di comunicare inconsapevolmente attraverso la musica una sensazione positiva e quindi incrementando la fiducia nel brand specifico. L’utilizzo di colonne sonore diverse su uno stesso cortometraggio ha indotto gli spettatori a categorizzare la sequenza d’immagini in generi diversi dal thriller , commedia, horror, ecc.

G come Gesto musicale: Quando si suona uno strumento sono molti i sistemi cerebrali che si attivano: in primo luogo la corteccia motoria e premotoria per la programmazione del gesto, i sistemi di regolazione del feedback uditivo, visivo e propriocettivo oltre ai sistemi attentivi, di memoria e di codifica delle emozioni. Gli studi dimostrano che la pratica musicale modifica i processi di reazione motoria e tutto ciò accade nel tempo e con lo studio passando dal controllo dell’azione volontario ad automatico e viceversa.

H come silenzioso: Ripassare silenziosamente un brano musicale è una pratica che cantanti e strumentisti praticano spesso sia per memorizzare che per preservare la voce da sforzi intensi. Da studi fatti si è indagato sui meccanismi neurali alla base del canto immaginato e del canto reale osservando come il nostro cervello si attiva in modo molto simile nelle due condizioni. I dati emersi confermano che la simulazione mentale dell’esecuzione contribuisce concretamente all’apprendimento motorio similmente alla pratica effettiva anche se, ovviamente in misura meno efficace.

I come Improvvisazione: Lo studio della pratica improvvisativa musicale da parte dei neuroscienziati ha evidenziato che, oltre alle aree dedicate al movimento del suonare inclusa la vista e il tatto, la corteccia frontale inferiore svolge un ruolo primario nella capacità di ideare sequenze originali musicali e anche linguistiche. In generale la capacità di generare idee nuove è in relazione ad una maggiore connettività funzionale tra la corteccia prefrontale inferiore e le altre regioni corticali incluse nei processi immaginativi.

L come lettura a prima vista: L’efficienza della pratica della lettura a prima vista migliora con l’aumentare dell’expertise del musicista “poiché questo è in grado di trasformare in programmi motori un insieme sempre più grande di note, programmandole in modo globale.” Inoltre la pratica accumulata con il proprio strumento unita all’età d’inizio degli studi musicali possono condizionare le capacità di leggere bene a prima vista.

M come memoria: Le diverse memorie sono tutte componenti indispensabili nella pratica musicale a partire dalla memoria ecoica, iconica, procedurale e dichiarativa semantica per recuperare il ricordo di un testo di un brano vocale. Tutti questi diversi tipi di memorie si basano su meccanismi neurali diversi e questo spiega la ragione per cui i malati di Alzheimer mantengono la capacità di suonare uno strumento anche se hanno perduto la capacità di riconoscere come noti brani musicali che conoscevano da tempo(memoria episodica).

N come neuroni: E’ stato dimostrato che nell’uomo esiste un sistema di neuroni specchio riservato ai suoni del linguaggio “(echo mirro system): quando un individuo ascolta stimoli verbali vi sarebbe un’attivazione automatica dei centri motori responsabili dell’emissione dei fonemi presenti nelle parole ascoltate”. Molti studi hanno ormai dimostrato l’esistenza di sistemi multisensoriali che rispondono in termini di codifica simultanea a peculiarità visive e auditive legate all’azione e neuroni audiovisivi che “codificano congiuntamente gli oggetti e il suono da loro prodotto, di importanza fondamentale per l’apprendimento della musica e la regolazione del feedback sensoriale”.

O come orecchio assoluto: L’orecchio assoluto rappresenta la capacità di distinguere con precisione l’altezza esatta di qualsiasi nota senza prendere nessun riferimento esterno sia ascoltando che immaginando di ascoltare un dato suono. Per ragioni di plasticità corticale l’orecchio assoluto può essere acquisito prima dei sette anni d’età esercitandosi sulla capacità di associare la percezione uditiva al nome preciso della nota. Tutto questo ha necessità di una predisposizione genetica a volte fuori dalla normalità come per esempio nelle persone autistiche o negli idiot savant caratterizzati da straordinarie capacità analitiche, di concentrazione focale e forti tratti d’introversione.

P come plasticità: L’esperienza musicale “promuove la neuroplasticità, aumenta la connettività producendo sinaptogenesi”. Come il linguaggio la musica plasma il sistema nervoso per merito anche della sua componente emotiva. Il cervello risponde molto velocemente all’educazione musicale e in particolare “la risposta corticale somatosensoriale è massima quando l’esordio degli studi musicali avviene durante l’infanzia e diminuisce progressivamente con l’aumentare dell’età di esordio, pur essendo sempre maggiore di quella dei non musicisti.”

Q come quadrato: Cosa accade quando il nostro procedere ritmico è quadrato, cioè esatto, a tempo?
Nela percezione del ritmo interno “dal punto di vista neurale, sono coinvolti il talamo, i gangli della base e il cervelletto”. La capacità che abbiamo di sincronizzare dei movimenti sul ritmo che ascoltiamo è data dalla regolarità che ne estraiamo e alla “capacità di andare a tempo e sentire il ritmo contribuirebbero processi di simulazione di movimento periodico che avrebbero luogo nelle aree di pianificazione motoria: essi fornirebbero un segnale neurale che aiuterebbe il sistema uditivo a prevedere l’occorrenza temporale dei battiti imminenti.”

R come ritmo: Quando ascoltiamo o produciamo musica abbiamo tutti la tendenza a muoverci entrando in sincronia con il ritmo magari con il battito del piede o con l’oscillazione della testa e questo perché esiste uno stretto legame tra circuiti uditivi e circuiti motori.
“Il ritmo stimola il movimento agendo non solo sulla corteccia, ma anche sui gangli della base, deputati all’avvio del movimento, traducendosi in un effetto energizzante per l’umore e stimolante il comportamento prosociale”.

S come studio: Lo studio della musica in età adulta è diverso da quello che avviene in età evolutiva sia per ‘inevitabile declino delle abilità cognitive e motorie e per la capacità di essere pronti e reattivi”. Esiste però la possibilità che il cervello avvii processi compensativi per temperare l’invecchiamento cognitivo. La Riserva Cognitiva si caratterizza con” una serie di fattori che hanno dimostrato di contribuire in modo significativo alla riduzione del rischio di soffrire di demenza: il rendimento scolastico, le capacità intellettuali, le interazioni sociali e le attività del tempo libero”. La pratica musicale in particolare, ricopre un ruolo molto importante in questo contesto.

T come tonalità: La musica è in grado di suscitare in chi l’ascolta perturbazioni emotive diverse.
“La capacità di comprendere un tono emotivo di un frammento musicale mostra molte affinità con quella di comprendere il contenuto emotivo delle vocalizzazioni non verbali (pianti, grida, risate, lamenti, gemiti e versi di apprezzamento, sorpresa, richiami, ecc): alcune regioni cerebrali sono specializzate nel loro riconoscimento, differenziandone chiaramente la valenza (positive vs. negative).”Da studi e ricerche compiute in tal senso si ipotizza l’esistenza di un “sistema innato di estrazione di informazioni acustiche spettrali e di categorizzazione emotiva delle stesse.”

U come uditiva: Ognuno di noi conosce cosa significa avere una musica in testa anche se realmente non l’ascoltiamo…suona dentro di noi e non ci lascia più!
L’immaginazione uditiva involontaria e in assenza di stimolo sensoriale reale si chiama in termini tecnici earworm. Quasi sempre si tratta di un frammento breve in genere ripetitivo “( catchy, sticky, cioè appiccicoso) molto ritmato, spesso accompagnato da un slogan verbale o poche parole, meglio se prive di senso.”

V come voce: Tutti immaginiamo che l’organo deputato al canto sia la laringe ma oggi sappiamo che è il cervello alla base della capacità canora in quanto organo di “controllo dell’esecuzione motoria della voce e della fonazione e di elaborazione del feedback uditivo, apprendimento della capacità di cantare, capacità di percepire i suoni e la musica, comprensione ed espressione del linguaggio “ anche dal punto di vista emotivo. L’eccellenza nel canto include la capacità di controllo della voce di tipo motorio, cognitivo –percettivo ed emotivo oltre la capacità di controllo del feedback, codifica propriocettiva e di attenzione alla sequenza motoria.

Z come zona di confort: Uscire dalla nostra zona di confort musicale vuol dire affrontare le incertezze di un ascolto imprevedibile e privo di aspettative. Ognuno ha il suo quoziente di avventurosità musicale che gli permette di uscire dalla sua zona sicura e, come afferma Levitin una nuova musica è come un’amicizia, ci vuole tempo per apprezzarla e a volte non si può fare nulla per accelerare. Sul piano neuronale si dovrà trovare nuovi punti di riferimento così da invocare un nuovo schema cognitivo. Di conseguenza la ripetizione dell’ascolto e l’aumentare della familiarità consentirà a chiunque di prevedere e quindi di confermare le aspettative generando nell’ascoltatore un senso positivo di gratificazione.

Alessandra Seggi

Alice Mado Proverbio è professore associato di Psicobiologia e Psicologia fisiologica presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca, dove insegna Neuroscienze cognitive e altri corsi nelle lauree triennali e in quelle magistrali.

Recensione: L’essere musicale, Nuovi orizzonti della didattica della musica A cura di Grazia Sebastiani

L’essere musicale: un titolo che mi ha incuriosito e che ho acquistato quasi ad occhi chiusi. Il libro nasce come produzione del Conservatorio di Musica “Nino Rota” di Monopoli e già questo rappresenta di per sé una novità nel panorama della saggistica italiana. Inoltre il lavoro si configura nel Dipartimento di Didattica della Musica a testimonianza di come queste scuole producano, ormai da anni, riflessioni e progetti di valore sia nella ricerca che nella progettazione didattico musicale.

Il testo curato da Grazia Sebastiani, docente di Pedagogia Musicale presso lo stesso Conservatorio, espone una serie di riflessioni sulle pratiche e le metodologie dell’insegnamento musicale oggi con particolare riferimento alla didattica per competenze e all’inclusione di studenti con bisogni speciali in un approccio teso a valorizzare l’individuo e le sue peculiarità.

Il volume è strutturato in due parti distinte ma fortemente connesse fra loro.

Nella prima si espongono esperienze d’inclusione attivate da docenti di liceo musicale illustrando esempi didattici centrati sulle pratiche strumentali ed in particolare: flauto, percussione, violino e chitarra. Sempre in questa sezione la curatrice illustra un contributo sulla formazione musicale di tipo accademico con uno studente ipovedente e due non vedenti. Segue poi una sezione dedicata all’osservazione di iniziative e pratiche rivolte alla disabilità attraverso la narrazione di esperienze vissute affiancate da riflessioni sul tema di natura psicoterapica. Nella seconda parte sono inoltre esposte delle Unità di Apprendimento (UDA) strutturate per competenze ed EAS (Episodi di Apprendimento Situato) indirizzati a studenti di scuola secondaria di I grado e liceo musicale. Tutti i lavori presentati sono stati prodotti e scritti da ex studenti del Biennio di specializzazione di Didattica della Musica: PAS (Percorsi Abilitanti Speciali) e TFA (Tirocinio Formativo Attivo) tenuti nell’ A.A. 2014-15 presso il Conservatorio di Monopoli e che oggi sono docenti di scuola secondaria di I grado e di liceo musicale nella stessa regione.

Nell’impostazione del libro si alternano momenti di riflessione pedagogica e didattico musicale a momenti di pratiche agite a sostegno delle premesse teoriche via via esposte rendendo la lettura agile e concreta allo stesso tempo. In questa sede segnalo solo alcuni spunti di riflessione tratti dal libro lasciando a voi la curiosità di scoprirne ancora altri presenti in questo lavoro.

Parto da alcuni degli interrogativi che Grazia Sebastiani espone nella premessa, ed in particolare:

“Come si inserisce l’apprendimento musicale nello sviluppo delle competenze chiave di cittadinanza? Quali aspetti dell’insegnamento/apprendimento musicale si possono inserire nella progettazione di Unità di Apprendimento in cui l’ambito della Consapevolezza ed espressione culturale si intersechi con le altre competenze? Può valere anche per le discipline musicali l’idea di un ripensamento dell’insegnamento in termini di “scienza della progettazione” attraverso l’uso delle tecnologie? Si può fare didattica della musica con gli EAS? E in quale grado scolastico può risultare più efficace? Il metodo può effettivamente migliorare e facilitare gli apprendimenti in ambito musicale? Si può fare musica con la “classe capovolta”? Quale ruolo possono svolgere in questo ambito le nuove tecnologie?”

Nelle proposte che i singoli docenti espongono si concretizzano modalità e tecniche didattiche strutturate per sviluppare competenze, modellandole sulle pratiche musicali a partire dall’utilizzo del modello EAS,(tipologia di unità didattiche digitali minime)  Flipped classroom, Cooperative learning , problem solving, processi metacognitivi e pensiero creativo. Il tutto in un’ottica di didattica inclusiva secondo le Linee guida del MIUR per intervenire sui Bisogni Educativi Speciali dall’autismo alle disabilità motorie e visive, alla dislessia e ai diversi disturbi specifici dell’apprendimento.

Un dato interessante, in questo settore per i Conservatori, è la costituzione del GLIAFAM (Gruppo Lavoro Inclusione Comparto AFAM) dove un docente esterno per i conservatori e alcuni docenti di accademie di BBAA, “portano avanti  un’azione di sensibilizzazione in nome delle pari opportunità anche per gli studenti con disabilità di questo comparto e sta indirizzando il proprio impegno verso il riconoscimento della equiparazione agli atenei e la nomina di un delegato alla disabilità anche nei conservatori e nelle accademie con il sostegno del CNUDD (Conferenza Nazionale Universitaria dei Delegati alle Disabilità)”. Un contributo prezioso, presente nel libro, è quello del musicista Vincenzo Deluci, trombettista fasanese che dopo un incidente automobilistico rimane tetraplegico ma continua a suonare grazie a una tromba particolare adattata ai movimenti possibili del suo fisico. Nel 2011 fonda l’associazione AccordiAbili con sede a Fasano, in provincia di Brindisi, che “opera senza scopo di lucro sul territorio nazionale ed internazionale per la crescita del progetto “eMotion”, volto alla ricerca e sviluppo di tecnologie hardware e software che permettano ad un disabile di suonare uno strumento musicale. Il progetto “eMotion” si basa sul lavoro di un team di volontari, esperti nel campo dell’informatica, dell’elettronica, dell’artigianato e della musica che operano in rete per sviluppare uno strumento musicale costruito su misura dell’utente disabile”. Sempre su questi temi si sviluppa la parte curata da Caterina Santoro in merito agli studi attuali sull’uso di strumenti musicali “ritenuti più idonei in base alle diverse tipologie di disabilità”. Ciò che emerge è una realtà di lavoro e ricerca italiana ed europea per la modifica di strumenti musicali unitamente a dispositivi tecnologici creati per offrire la possibilità alle persone disabili di suonare, ascoltare e comporre musica. Il contributo è arricchito da una dettagliata sitografia che permette un viaggio in questo mondo parallelo di realtà musicale specifica.

Nella parte del libro dedicata alle UDA ed EAS sono esposte proposte operative musicali articolate sulle competenze chiave utilizzando un format composto da 5 parti: scheda di progetto, piano di lavoro, diagramma di Gant, consegna agli studenti e relazione finale dello studente. All’interno del Piano di lavoro si dettaglia l’articolazione della UDA con attività, strumenti, esiti tempi e valutazione. Per gli esempi di EAS si fa riferimento alle tre fasi: preparatoria, operatoria e ristrutturativa dove il docente propone alcuni video che, attraverso processi di problem solving consentiranno agli studenti di creare un prodotto originale ottenuto attraverso il lavoro cooperativo e inclusivo di gruppo.

I diversi contributi che costituiscono il libro sono tutti caratterizzati da grande energia propulsiva sul valore terapeutico dell’esperienza musicale sia per i diversamente abili che per tutto il gruppo classe. Inoltre si evidenzia l’importanza delle forme di lezione partecipata, della pratica di un “sapere agito” che permetta di rompere le barriere tra fare e pensare costituendosi proprio sulla pratica esperienziale del gruppo che apprende. Altro elemento sostanziale è rappresentato dalla qualità della relazione che si crea tra docente e studenti unitamente alle pratiche di ascolto attivo che fanno del gruppo classe un insieme capace di relazionarsi accrescendo il senso di autoefficacia tanto individuale che collettivo.

Come collega di Pedagogia Musicale in Conservatorio posso immaginare le difficoltà ed il lavoro che sta dietro alla pubblicazione di questo libro e sono certa che sia stato, per gli studenti, quanto per i docenti, un processo stimolante e motivante allo stesso tempo. Potrebbe essere

un’incentivo per tutti noi che operiamo nelle Scuole di Didattica della Musica raccogliere i materiali che negli anni vengono prodotti per far conoscere la qualità delle riflessioni ed elaborazioni intellettuali che in questi dipartimenti si concretizzano. Inoltre mi sento di sottolineare il valore di una progettualità didattico musicale che nasce in una regione del Sud Italia anche qui a conferma del grande lavoro che si sta svolgendo nel Sud e nelle Isole ma che forse ancora troppo poco si conosce a livello nazionale.

Un apprezzamento sincero al Dipartimento di Didattica del Conservatorio di Musica di Monopoli per questo risultato con l’augurio che la nostra recensione possa stimolare la curiosità di leggere e conoscere il libro di cui vi abbiamo scritto oggi.

 

Alessandra Seggi

 

 

L’Essere musicale

Nuovi orizzonti della didattica della musica

A cura di Grazia Sebastiani

Edizioni Florestano, Bari 2017

Pg. 175

 

 

Recensione: Dario De Cicco: Il metodo Ward per l’educazione musicale

Leggere e conoscere gli scritti dei diversi autori che hanno sviluppato metodologie pedagogiche musicali è stato ed è un mio interesse personale e professionale ma mentre per le figure classiche, mi riferisco a E.J. Dalcroze, E. Willems, Z. Kodaly, C. Orff, solo per citare i nomi più conosciuti, è facile reperire scritti originali così non è per quanto riguarda il Metodo Ward.

Ho avuto però la fortuna di avere, quasi senza sapere come, il libro “Musica per le scuole elementari, Libro di primo anno ad uso degli insegnanti” di Justine Ward pubblicato a Roma nel 1937. La lettura di questo prezioso libricino, dalle pagine ingiallite dal tempo, mi ha permesso di conoscere il pensiero della Ward e rileggendolo, anche per ragioni professionali, ha continuato a sorprendermi sia per la cura estremamente dettagliata degli argomenti trattati sia per la modernità del pensiero pedagogico musicale presentato.

Ecco perché mi ha particolarmente incuriosito leggere il libro di cui qui tratterò scritto nel 2016 da Dario De Cicco dal titolo: “IL metodo Ward per l’educazione musicale, genesi, lineamenti ed esperienze”.

Un testo così mancava nel panorama editoriale italiano, uno scritto che mettesse in luce l’opera metodologica musicale ancora poco conosciuta che questa straordinaria donna ha lasciato nei suoi scritti.

Inoltre mi è molto gradito parlare qui di una metodologia elaborata da una donna studiosa, ricercatrice e“particolarmente versata sull’ascolto dell’altro”, peculiarità e aspetti molto risonanti nel nostro team tutto femminile di Musicastudio.

In questa recensione le citazioni oscilleranno fra parti di testi ripresi dal libricino della Ward del 1937 e parti del testo di Dario De Cicco del 2016: ho deciso di non segnalare le distinzioni in quanto l’intreccio che si crea fra i due autori è così integrato l’uno nell’altro da consentirmi questa atipica libertà.

Entriamo nel vivo: chi era Justine Bayard Cutting Ward?

Nel volume, Dario De Cicco, ci presenta dettagliatamente la biografia della Ward ( Morristown _ New Jersey 1879 / Washington 1975) evidenziando il suo percorso formativo e tutti contatti che ella ha avuto con la realtà religiosa americana, unitamente a quelli con i maestri della scuola di canto gregoriano di Solesmes.

Il lavoro di ricerca e di documentazione che l’autore presenta è minuzioso e arricchito da numerosi allegati che testimoniano “gli aspetti caratterizzanti la modellizzazione didattica wardiana contestualizzandoli all’interno del divenire delle realtà ecclesiali, sociali e musicali statunitensi ed europee”. Inoltre l’autore compie un’indagine arricchendo il testo con interviste sui contesti applicativi italiani della metodologia e con una parte dedicata alla produzione editoriale indicante gli autori e i rispettivi titoli dei brani musicali contenuti nei diversi libri tradotti del metodo pubblicati in Italia nel corso degli anni. In particolare “dettagliatissime sono le indicazioni metodologiche presenti nei libri rivolti agli insegnanti che specificano e organizzano ogni elemento contenutistico, collocandolo all’interno di sequenze di apprendimento significative”.

 

Sicuramente questi aspetti sono quelli che hanno maggiormente attirato la mia attenzione e già a partire dall’introduzione della Ward al suo libro sopra citato si legge:” lo scopo che si propone la pubblicazione di questa serie di libri…è quello di far si che la possibilità di cantare e di esprimersi in musica non sia limitata ad esseri di talento, ma diventi patrimonio comune…non è una teoria che vogliamo diffondere, bensì un’esperienza.”

Queste affermazioni sono di grande modernità in particolare nel considerare l’esperienza pratica come prima fase del processo di apprendimento dalla quale deriverà poi la teoria. Un’affermazione che può sembrare ovvia ma che sul versante didattico musicale ancora oggi stenta a decollare: troppe volte si inizia lo studio della musica impostando la teoria posponendo l’ordine più naturale del far vivere l’esperienza dalla quale derivare la teoria. Continuo con alcune citazioni tratte dallo stesso libro.

“Se il ritmo è essenzialmente movimento, è chiaro che non se ne può far conoscere il senso che mediante il movimento. Noi vogliamo movimenti a cui partecipi tutto il corpo, movimenti che facciano sentire il ritmo nei muscoli delle braccia e delle gambe: prima la percezione fisica del ritmo, poi, e per mezzo di essa, la percezione intellettiva”.

Qui si evidenzia l’influenza del pensiero di E.J.Dalcroze , J.Dewey , M.Montessori, tutti sostenitori di una formazione centrata sul fare e sullo studente: “il maestro deve in tutti i casi stimolare l’alunno ad usare le proprie forze, aiutandolo solo indirettamente”…”l’alunno imparerà a servirsi della sua capacità di pensare e a questa il maestro farà continuamente appello”.

Oggi si parlerebbe di attivare processi metacognitivi, di sviluppare la propria motivazione intrinseca e l’empowerment attraverso strategie per rendere lo studente competente e autoefficacie.

La Ward inoltre scrive: “Una classe annoiata, distratta e senza vita, generalmente prova che la lezione non è stata preparata bene” …” Quando scorgiamo nella scolaresca un senso di noia, dobbiamo cercare di dissiparlo subito, passando dalla concentrazione all’azione o introducendo qualcosa d’inaspettato. Non ci dobbiamo sentire menomamente soddisfatti di noi stessi, se non abbiamo creato, durante la lezione, un’atmosfera di contentezza. Questa è la prova più sicura di una buona lezione”.

Includere il piacere, la sorpresa, un clima sereno durante le lezioni non è forse un modo ancora oggi condivisibile di star bene a scuola?

Sempre nello stesso libro l’autrice indica vari schemi di lezione così come una serie di esercizi per stimolare un’alta concentrazione fino ad un relativo riposo corredando le indicazioni con suggerimenti operativi specifici utili sia per l’insegnante principiante che per quello esperto.

La Ward scrive “i requisiti di una buona lezione sono:

Brevità. Venti minuti in media sono sufficienti, se l’insegnante passa prontamente da un esercizio all’altro, senza perder tempo in vane spiegazioni e se la classe segue attenta e disciplinata. Completezza. In ogni lezione bisogna toccare tutti i possibili elementi: timbro, altezza, ritmo, notazione, ecc.

Progressività. Ogni lezione deve rappresentare un piccolo passo avanti.

Organicità. Ogni esercizio deve connettersi col precedente e preparare il successivo.

Varietà. Non bisogna seguire sempre lo stesso ordine di esercizi, ma variarlo tenendo soprattutto presente che gli esercizi che richiedono maggiore concentrazione mentale devono alternarsi con quelli che ne richiedono meno o possono considerarsi di relativo riposo.”

I requisiti sopracitati non hanno subito l’usura del tempo e sono a tutt’oggi condivisibili per realizzare una lezione efficacemente strutturata che soddisfi il docente quanto lo studente.

 

Nel volume di Dario De Cicco si analizzano le caratteristiche del metodo articolato in quattro livelli progressivi e rivolto ai bambini della scuola primaria con l’obiettivo di insegnare a cantare leggendo attingendo al repertorio gregoriano e a quello di natura popolare. I “periodi di apprendimento” indicati nel metodo della Ward sono:

Imitazione pura: intendendo la capacità di stimolare “condotte esplorative spontanee”.

Riflessione: intendendo la capacità di condurre il bambino “al possesso personale e all’uso indipendente e libero degli elementi musicali” “…gli alunni ci mostreranno le loro melodie, composte spontaneamente o dietro nostro invito. Nel correggerle noi dobbiamo mostrare il maggior rispetto possibile della personalità dei piccoli autori, limitando le correzioni allo stretto necessario e proponendo modifiche in forma di consigli che non umilino e non svalutino mai il lavoro del fanciullo, il quale, diversamente, non si sentirebbe incoraggiato a continuare”

Sviluppo-autonomia: “esprimendo consapevolmente ..le caratteristiche della propria identità musicale”;

Oggi si parlerebbe di sviluppo metacognitivo del bambino, d’indipendenza e di transfert di competenze per la soluzione di problemi.

Tutto molto attuale e ancora oggi condivisibile anche nell’attenzione e cura con cui la Ward chiede all’insegnante di considerare la personalità musicale degli studenti senza minarne il senso di autoefficacia.

Un’altra raccomandazione che la Ward espone per l’insegnante: “è importante ch’egli” (riferito allo studente) “non abbia mai la sensazione di trovarsi di fronte ad una difficoltà superiore alle sue forze: ciò lo scoraggerebbe e muterebbe in tormento la gioia dell’apprendere”.

Come non condividere tale premura? Ma quante volte non accade soprattutto nella pratica musicale? Quante volte il piacere, il ben-essere rimangono fuori dalle porte delle nostre aule?

Sembra strano che il piacere dell’imparare risulti ancora oggi un impedimento invece che un propulsore di energia positiva eppure molto spesso è proprio così che accade.

Nella strutturazione metodologica del percorso la Ward include la ricorsività tra i diversi stadi con l’obiettivo di attivare nel bambino “volontà, attenzione, riflessione” nutrendo quello che oggi s’intende per motivazione intrinseca data dai rinforzi positivi dell’insegnate verso lo studente.

Così scrive J. Ward: “I lavori degli alunni devono essere sempre pregiati e lodati, anche quando richiedono correzioni le quali non debbono mai offendere la personalità del fanciullo, né spengere la fiamma dell’entusiasmo.”

Un altro aspetto interessante è l’idea che l’esperienza musicale possa essere integrata con le altre discipline di studio dei bambini tanto che dalla “modellizzazione originaria della Ward erano esclusi i musicisti professionisti perché non ritenuti in possesso di “quelle indispensabili cognizioni di psicologia infantile che li trattenga dall’imporre senz’altro la loro dottrina caricando le piccole menti di un peso insopportabile ed inutile”.

Un’esigenza quella della preparazione psico-pedagogica dei musicisti tutt’oggi molto evidente nel nostro paese e presente a tutti i livelli di formazione: lo sappiamo bene noi che lavoriamo all’interno delle Scuole di Didattica della Musica nei Conservatori!

Alla luce di tutte queste considerazioni potremmo auspicare una nuova pubblicazione dei libri di Justine Ward così ricchi di suggerimenti per l’insegnante che desideri strutturare un percorso formativo musicale tenendo conto delle istanze dei propri studenti di indicazioni pratiche vocali, ritmiche e di formazione dell’orecchio che oltrepassano la datazione inserendosi serenamente a pieno titolo all’interno delle indicazioni pedagogiche contemporanee.

 

Ci sarebbero davvero moltissime considerazioni da fare sulle proposte nel metodo ma per non dilungarmi di più proverò a stringere sugli elementi musicali specifici che costituiscono i paradigmi di contenuto della metodica wardiana.

Il cuore del metodo, come già scritto, è l’esperienza corale in cui si alternano proposte individuali e collettive attraverso pratiche attive, ludiche centrate sul fare e non sulla teoria dove lo studente è protagonista, ha un ruolo attivo ed è incoraggiato a produrre le proprie idee musicali.

L’insegnamento del ritmo avviene attraverso esperienze di movimento corporeo nello spazio includendo l’ondeggiamento delle braccia e seguendo il fraseggio musicale analogamente a come J.E. Dalcroze propone nel suo metodo. Nei quattro anni previsti di studio la Ward propone la pratica del ritmo mensurato e del ritmo libero, come nel canto gregoriano, l’utilizzo del ritmogramma come introdotto dalla “ritmica integrale” di Laura Bassi, “la pronuncia di parole ritmiche associate al movimento”, esercizi di lettura di brevi disegni ritmici, dettato metrico, ecc.

Specifica indicazione è data dalla “Chironomia del movimento ritmico” un’espressione gestuale e grafica che aderisce perfettamente alle caratteristiche del repertorio gregoriano.

Il metodo tratta anche l’educazione vocale indicando strategie operative, vocalizzi e proposte suddivise per i diversi anni di corso dedicando un’attenzione distinta agli “stonati” proponendo una serie di esercizi da provare per recuperare gli studenti con difficoltà d’intonazione che, a parere della Ward sono riconducibili ad un’insufficiente educazione dell’orecchio.

Il problema della notazione musicale viene affrontato insieme ed in funzione all’esperienza pratica: prima il suono e poi il segno indicato con i numeri arabi. La scrittura sul pentagramma viene introdotta prima con un rigo per poi passare a due fino a cinque. Nel quarto anno viene insegnata la notazione di S.Gallo e quella Vaticana per leggere agilmente il repertorio gregoriano. La Ward utilizza il Do mobile per la lettura cantata e la chironomia indicante i gradi con il numero delle dita specificando tutta una serie di esercizi e attività progressive da proporre ai bambini per esercitarsi in tali pratiche.

Dario De Cicco nel suo volume analizza la realtà europea e italiana di fine ottocento e inizi novecento evidenziando le indicazioni legislative relative all’insegnamento della musica e l’influenza che le varie scuole di didattica musicale hanno avuto sulla formazione di quegli anni.

Inoltre l’autore presenta una larga documentazione di testimonianze, lettere e riproduzioni di foto d’epoca che permettono al lettore d’inquadrare chiaramente la situazione storica di quegli anni.

Nell’ultima parte del libro D. De Cicco indica la divulgazione e la pratica del metodo in Italia avvenuta fra la prima e la seconda guerra mondiale.

A questo punto riconosco un profumo di casa. Infatti il metodo Ward fu insegnato in Casentino dal 1923 in particolare a Serravalle di Bibbiena, poi anche Badia Prataglia nel 1929, entrambe cittadine in provincia di Arezzo, che è la mia città natale.

Ritornando con la memoria ad Arezzo, mi ricordo che negli anni settanta/ottanta in cui cantavo come corista nel coro polifonico “F. Coradini” diretto dal M° Fosco Corti, c’erano alcuni coristi che scrivevano i numeri sotto le note della propria parte cantando in do mobile e utilizzando il metodo Ward imparato proprio a Serravalle e a Badia Prataglia. Allora mi sembrava curioso questo modo di leggere le note ma restavo stupita dall’efficacia che produceva nell’intonazione degli intervalli rispetto al nostro sistema tradizionale di lettura della musica.

Con questa nota un po’ autobiografica chiudo la mia recensione con l’invito a leggere il volume scritto da Dario de Cicco per conoscere l’opera di una didatta dal pensiero così innovativo e moderno che ancora oggi ha tanto da insegnare a tutti coloro che operano nella pratica formativa corale e musicale più in generale.

Alessandra Seggi

D. De Cicco, Il metodo Ward per l’educazione musicale

Genesi, lineamenti ed esperienze, ed Lim, Lucca 2016 (pg 369)

 

Riflessioni sul saggio: Vittorio Lingiardi, Mindscapes Psiche nel paesaggio

La lettura di Mindscapes mi ha cattura e mi ha fatto attraversare un affascinante labirinto multisensoriale dentro e fuori un universo d’immagini, forme e parole. In ogni capitolo l’autore, Vittorio Lingiardi, psichiatra e psicoanalista, apre scenari diversi come giocando con un caledoscopio che permette di comporre e ricomporre riflessioni psicoanalitiche, letterarie e neurestetiche strutturando di volta in volta scenari inusuali e originali. Le immagini di opere pittoriche che arricchiscono le pagine del libro sono spazi che contrappuntano gradevolmente il flusso della scrittura così che, per il lettore, l’effetto del viaggio nel paesaggio si fa ancora più realistico e seducente.

L’idea centrale è che, non solo non siamo separabili dai nostri luoghi, ma che che ci vogliono molti luoghi dentro di noi per costruire la nostra storia e la nostra identità. Attraverso questo legame si crea una relazione stretta fra la psiche e i luoghi che attraversiamo: il paesaggio è in noi e noi siamo in lui non solo con lo sguardo ma con tutta la componente corporea e sensoriale. “Sonomindscapes: paesaggi raccolti nella psiche e psiche immersa nei paesaggi. Percezioni visive che diventano visioni mentali”. Nella nostra relazione con l’ambiente, fin dall’inizio della vita, si crea una connessione che include la discriminazione cognitiva e la componente emotiva mediata dalle diverse figure di chi ci ha cresciuti e si è preso cura di noi. In questa circolarità si forma l’identità e la” sintonizzazione esteticacon il mondo da cui dipenderanno i nostri gusti e disgusti”.  Come in una figura circolare i paesaggi che ci appartengono sono tali “perchè li abbiamo riconosciuti nel momento in cui li abbiamo trovati” e “sono il risultato dell’incontro tra ciò che vediamo (…) e la nostra estetica degli oggetti, la nostra memoria e la nostra solitudine.”

Attraverso riflessioni psicoanalitiche, estetiche e artistiche l’autore ci conduce alla scoperta di un paesaggio che ci appartiene ma che allo stesso tempo siamo in grado di rimodellare e rinnovare nella memoria.

Il libro è strutturato per temi dai nomi suggestivi: “La fioritura umana”, Tasche piene di farfalle”,” Paesaggi neuroestetici”, “Chiudete gli occhi e vedrete”, “Il riverbero”, “Dis-orientarsi” all’interno dei quali l’autore viaggia liberamente anche al di là dei confini tracciati dal titolo stesso.

Lingiardi scrive un volume complesso e non facile ma sicuramente curioso che ha bisogno di essere gustato con lentezza e assaporato con calma. Un libro che si può leggere e rileggere a pezzi un po’ come un saggio o una poesia regalandoci uno spazio di tempo dilatato e capace di abbracciare le infinite sfumature che l’autore con cura disegna.

 

Cosa ha che fare tutto questo con la nostra rubrica di recensioni musicali?

La lettura di Mindscapes permette di fare un parallelismo con il mondo sonoro e con una sorta di paesaggio acustico che si configura ancor prima di nascere e che già dai primi giorni di vita contribuisce a creare l’identità, questa volta sonora, di ciascuno di noi. L’esperienza dell’ascolto non è riferita solo all’esterno ma anche alla capacità di ascoltare il proprio mondo interiore indagando cosa risuona nel nostro intimo unitamente agli eventi sonori che hanno contribuito a nutrire la nostra vita. Da questa prospettiva anche per i suoni possiamo affermare che “esiste un legame tra come siamo e la forma che diamo al nostro mondo interno” e come, nelle varie fasi della vita, ciascuno di noi è capace di creare il proprio scenario acustico che più gli corrisponde.

Il legame tra udito e fonazione, dove il primo determina il secondo, ha permesso di provare che gli uomini non sentono allo stesso modo in ogni parte del mondo e, secondo Tomatis, questa è una delle origini delle grandi varietà di lingue umane. (A.Tomatis)Il tutto a conferma del nostro costante legame tra corpo e ambiente, emozione ed estetica.

Glistudi sul soundscape(paesaggio sonoro), inteso come l’insieme dei suoni che ci circonda e ci condiziona nella nostra quotidianità, sollecitano un’osservazione sulla pervasività del suono nelle nostre vite e negli spazi in cui viviamo.

Potremmo immaginare di valorizzare e interpretare criticamente le peculiarità acustiche di un territorio per contribuire a ridare importanza sia alla pratica dell’ascolto che agli aspetti sociali della produzione sonora. Far vivere la nostra identità culturale unitamente alla capacita di comprensione e ascolto dell’identità altrui. Si potrebbe considerare il diritto ad un paesaggio sonoro salubre e desiderabile così come, “molte ricerche in campo evoluzionistico indicano una predisposizione per un “paesaggio ideale” (…)fatto di ambienti tranquilli, senza pericoli e accompagnati da figure positive. Esistono cioè elementi a noi familiari che ci fanno percepire una piacevolezza, una rassicurante consuetudine, una capacità di stare in sintonia senza sforzo perché ciò che vediamo rappresenta una modalità condivisa e quindi prevedibile e stabile.

Nella musica accade molto spesso un fenomeno assai simile. La nostra capacità di ascolto è

spesso condizionata da aspettative, anticipazioni che ci guidano nei processi percettivi ma anche che ci vincolano e ci condizionano. Uscire dalla una zona musicalmente sicura è impegnativo perchè imprevedibile, destabilizzante sia sul piano emotivo che cognitivo, prevede cioè un certo grado di avventurosità che non è certo uguale per tutti noi. Inoltre l’esperienza musicale ha il potere di immergerci in una situazione emotiva difficilmente prevedibile in anticipo e proprio per questa ragione il timore e l’insicurezza possono a volte avere la meglio sull’intensione di attraversare esperienze musicali inconsuete.

Probabilmente alle origini della sua storia, l’uomo era per necessità più aperto e libero a tutto il panorama sonoro che lo circondava rispetto a quanto non lo sia oggi anche se possiamo immaginare di recuperare questa qualità di ascolto in cui “l’occhio cerca ma l’orecchio, più accuratamente, trova”. (J.E. Berendt)

 

In un altro capitolo del libro si analizza il fenomeno della “simulazione incarnata” (V. Gallese), fondato sulla scoperta dei neuroni specchio, quale attivazione sensomotoria e viscero-motoria che si attiva nel cervello dell’osservatore in una sorta di corrispondenza tra chi osserva e ciò che viene osservato.  Il sistema senso-motorio risulta coinvolto nel riconoscimento delle emozioni e sensazioni espresse da altri. “Empatica ed estetica, la simulazione incarnata si attiva in relazione sia al contenuto dell’opera (…) sia alla traccia gestualedell’artista.”

Se questo accade nell’esperienza visiva osservando un’opera d’arte, si potrebbe immaginare uno stesso tipo di rispecchiamento anche nella performance musicale tra interprete e ascoltatore nel qual caso l’esperienza sonora non sarebbe così distante da quella visiva.

Indagando il senso di vitalità che caratterizza la nostra vita, secondo il pensiero di D. Stern, si osserva come le arti temporali, fra cui la musica, ci coinvolgano in quanto manifestazioni vitali che esprimono e risuonano perfettamente in noi. In musica il flusso temporale ci trascina, ci cattura in un’alternanza di tensione e distensione che appartiene e accomuna tutti gli esseri umani.

In particolare attraverso il suono della voce, che si esprime attraverso le parole, si rimuove la distanza tra esterno e interno assumendo la valenza di mezzo primario nella relazione con gli altri. Durante l’emissione vocale l’uomo fa esperienza dell’unità psico-acustico-motoria percepita come un unico processo chiuso in sé dove il suono ritorna all’orecchio ascoltando la propria stessa voce. Lo strumento è il suono: la parola che la voce produce e che dall’udito è resa possibile, conferisce all’uomo la capacità stessa di comunicare. L’orecchio mantiene nel tempo la sua relazione stretta con l’aspetto sonoro del parlato ed anche la postura verticale dell’uomo spinge il suo corpo all’ascolto dentro e fuori da sè.

Parlare equivale a suonare il corpo dell’altro con l’orecchio, ma anche con la pelle e con tutto il suo potenziale sensoriale (D. Anzieu) proprio perché l’essere umano è di costituzione sensibile così come la nostra esperienza del mondo è molteplice e plurale.

“Di conseguenza la costruzione delle nostre identità di genere è un assemblaggio sempre inclusivo: tutti i modi di essere in relazione con l’altro sono necessari”.

La metafora del viaggio dentro paesaggi diversi si presta ad essere traslata anche nell’esperienza dell’insegnamento: proprio perché avvicinarsi all’altro è sempre un po’ come attraversare un territorio sconosciuto da esplorare e con il quale interagire. “Un movimento che cerca di conciliare conosciuto e sconosciuto, vicino e distante: la sicurezza del familiare e l’eccitazione dell’esplorabile.”

Lingiardi scrive un volume ricco di riflessioni e messaggi che toccano le nostre corde intime producendo una musica che, per strade diverse, ci appartiene e che abbiamo ascoltato dentro di noi pur non sapendolo.

Mi sento di consigliare la lettura di Mindscapes proprio perché apre scenari grandi dentro i quali ciascuno può entrare in risonanza emotiva e intellettuale ricostruendo una molteplicità di paesaggi dentro i quali riconoscersi e conoscersi di nuovo.

 

 

Vittorio Lingiardi

Mindscapes

Psiche nel paesaggio

Raffaello Cortina Editore

Milano 2017

 

Vittorio Lingiardi, psichiatra e psicoanalista, è professore ordinario di Psicologia dinamica alla sapienza Università di Roma, dove dal 2006 al 2013 ha diretto la Scuola di specializzazione in Psicologia clinica. Con Nancy McWilliams è coordinatore scientifico e curatore del Psychodynamic Diagnostic Manual(PDM-2), già uscito negli Stati Uniti e in corso di pubblicazione presso le nostre edizioni. Collabora con l’inserto culturale Domenica del Sole 24 oree con il Venerdìdi Repubblica.

 

 

Riflessioni sul saggio: Ascoltare il silenzio, viaggio nel silenzio in musica di E. Ferrari

Oggi vi parlo di uno scritto che ben si sintonizza ad un tempo di vacanza e di meritato relax. Si tratta di un breve saggio che espone varie riflessioni sulla musica concentrandosi sulla prospettiva del silenzio.

In un mondo in cui il frastuono sovrasta inesorabile, nostro malgrado, la quotidianità di tutti noi, concentrare l’attenzione sui valori del silenzio è un’operazione che già di per sé permette un respiro più calmo e posato.

Per udire le diverse qualità dell’assenza di suoni l’ascolto si deve fare più sottile e attento tanto da poter percepire le diverse valenze semantiche del silenzio nello scorrere musicale. Possiamo, con questa attitudine, iniziare la nostra passeggiata taciturna alla scoperta dei tanti significati del silenzio in musica.

Il piccolo libro è diviso in due parti: la prima in cui l’autore descrive il silenzio come l’elemento fondamentale della musica e la seconda parte che analizza il “silenzio udibile” all’interno dei brani e costituito dalle pause, attraverso il confronto di tre interpretazioni diverse del Largo con gran espressione della Sonata op 7 per pianoforte di L. V. Beethoven.

Il silenzio è adeso con l’ascolto e questo binomio così semplice è il primo indispensabile passo per potersi sintonizzare sul presente, su un’attenzione focalizzata momento per momento.

Prima di un concerto c’è il silenzio del pubblico che si unisce al silenzio che l’interprete ha necessità di praticare con sé stesso.

“La sintonia col brano, quindi, non passa da un’identificazione, ma dal fare spazio dentro di noi.”pg14

Nelle pagine di questo scritto si evidenziano tante tipologie di silenzi: quello udibile, non udibile, evocato, doppio, relativo…indicando per ciascuna le diverse caratteristiche che li differenziano. Ma qui non voglio svelarvi i singoli dettagli, preferisco che il silenzio mostri la sua vita, che in questo elaborato si esplicita, ribaltando l’idea di vuoto che generalmente associamo al silenzio.

L’ascolto è la condizione primaria e indispensabile per apprezzare il valore del silenzio. Ma siamo davvero capaci di ascoltare? Qui potremo aprire un un’ampia dissertazione dato che questa capacità nel nostro tempo è veramente minata da un’eccessiva saturazione di antidoti all’apprezzamento del silenzio.

Certamente il passo immediatamente precedente all’ascolto è rappresentato dall’altissima qualità di attenzione che richiede: un’attenzione calma, paziente e senza la fretta di anticipare e di predire ciò che staremo per ascoltare ma, al contrario, pronta a sorprendersi in una disponibilità aperta e liberante. Questo vale sia quando ci troviamo ad ascoltare una musica quanto nel momento in cui siamo noi stessi a produrre musica; quando cioè rendiamo udibili i suoni attraverso un gesto, una condotta (Delalande) che produce una vibrazione. In ultima istanza lo strumento siamo noi, lo strumento è l’uomo stesso. Così tutti i mezzi, i dispositivi, servono a ricordarci e a far risuonare ciò che in noi intimamente e profondamente risuona e si esprime non solo attraverso i suoni ma anche anche nei silenzi e nelle pause.

Come anticipato nella seconda parte di questo brevissimo saggio si analizza Il Largo, con grande espressione della Sonata op.7 di L. V. Beethoven per pianoforte nell’incisione di W. Backhaus, W. Kempff e E. Gilels. L’autore compara le diverse interpretazioni osservando le diverse valenze espressive dei silenzi e di come queste rappresentano variabili considerevoli nella pratica interpretativa osservabile su uno stesso brano.

Vi suggerisco questa lettura per riflettere sulla componente creativa del silenzio, sul valore vivificante dell’ascolto e del silenzio interiore. Tutti questi temi sono stati già trattati nei mesi scorsi nella nostra rubrica Musica Studio perché rappresentano, per noi, lo sfondo costante del pensare e realizzare l’esperienza sonora. Un’attenzione sottile e curiosa che si nutre del silenzio interiore, dello spazio necessario a far emergere il proprio sentire in relazione con il mondo dentro e fuori di noi.  Durante queste calde giornate è rigenerante posare i pensieri sulle potenzialità espressive che l’ascolto di sé e del proprio silenzio esplicitano sia nella vita che nella pratica musicale…perciò, buon silenzio e buon ascolto a tutti voi!

 

Emanuele Ferrari è ricercatore di musicologia e storia della musica presso la facoltà di Scienze della Formazione dell’università di Milano –Bicocca, dove insegna Musica e didattica della musica. E’ tra i fondatori dell’Accademia del Silenzio.

Ascoltare il silenzio, ed Mimesis, 2013

Riflessioni sul saggio: NOI perchè due sono meglio di uno di M. Ammaniti

Il saggio di cui scrivo oggi è solo apparentemente lontano dalla pratica musicale perché, come già visto per altri libri che abbiamo recensito, molti sono i fili che legano al mondo dei suoni le riflessioni apparentemente distanti perché non specificatamente musicali.

Premetto inoltre che toccherò solo alcuni aspetti di questo bellissimo saggio proprio in virtù di una scelta che privilegia interconnessioni e ibridazioni musicali dentro un libro che musicale non è.

Prepariamoci allora ad attraversare come in un viaggio paesaggi che diversamente ci suggestionano attraverso la lettura “sonora” del saggio di Ammaniti.

Nel libro l’autore traccia quella che può essere stata l’evoluzione dell’uomo attraverso le proprie capacità di cooperazione e collaborazione che hanno caratterizzato da sempre la specie umana.

In un’epoca come la nostra centrata sull’individualismo narcisistico la riflessione si concentra sulla cruciale importanza della relazione fin dalle primissime fasi dello sviluppo del bambino.

Ecco, già con queste premesse possiamo tracciare una linea di contatto con il mondo dei suoni.

L’esperienza di suonare uno strumento o cantare coinvolge il soggetto nella sua interezza fisica e psichica. Inizialmente la vibrazione stessa attraversa il corpo di chi suona avvolgendolo dall’interno in una risonanza che crea uno spazio esclusivo. Gli studi a riguardo ci dicono che questo spazio percepito come soggettivo di fatto non lo è, in quanto già all’inizio della vita ci troviamo in uno “spazio noi-centrico” sonoro che allaccia il corpo del bambino a quello della madre in una relazione che dai primordi si fa concreta e stabile. Perciò questa propriocezione del suono che vibra in noi è qualcosa che la nostra esperienza conosce già da tanto tempo.

Anche per i suoni esiste una sorta di qualità relazionale fin dal principio: possiamo ascoltare o ricordare una linea melodica per noi gradevole ma non pensiamo certo che un sol diesis sia bello di per sé! Sono le relazioni tra i suoni ad essere belle!  La musica non è percepita come un suono isolato ma come un insieme dotato di senso costituito da ciò che lo precede e da ciò che lo segue.

Chi fa musica così come chi l’ascolta vive in tempo reale una bilocazione cognitiva che gli permette di essere nel presente ma con un’attenzione al passato prossimo così come con un’anticipazione sull’imminente divenire. Tutto questo fa parte dell’esperienza sonora che, al pari del movimento nello spazio, non lascia traccia se non nella memoria di chi ascolta e/o produce suoni costituendo così una sorta di circolo virtuoso che contempla contemporaneamente lo stare presso di sé unitamente allo stare fuori e intorno a sé.

Questa capacità di stare con sé e contemporaneamente all’esterno si esplicita costantemente nella nostra vita come nella “risonanza empatica che implica un processo automatico che si attiva ogni volta che incontriamo un’altra persona e la guardiamo in viso”.  Prosegue l’autore: “Il mio cervello sta rispecchiando il cervello dell’altra persona e attraverso il mio riconoscimento di quello che sto provando in questo momento sono in grado di comprendere l’altra persona”.

In ogni momento della nostra vita siamo sempre in relazione con l’altro e, grazie a questo l’essere umano ha tante personalità quante le sue stesse relazioni interpersonali. L’Io che si costituisce non è più considerato un’entità rigida e unitaria ma al contrario un’entità in costante trasformazione dove unità e molteplicità coesistono parimenti.

Nel suo saggio Ammaniti ci conferma che i neuroni specchio ci aiutano nell’incontro con gli altri attivandosi nella risonanza emozionale e permettendoci di cogliere lo stato emotivo dell’altro.  Tale meccanismo d’interazione sociale è il più immediato e successivamente la mentalizzazione, “processo più lungo e complesso perché implica una partecipazione della corteccia prefrontale”, ci offre gli strumenti per accogliere la prospettiva degli altri così da coglierne le intensioni, i desideri oltre alle perturbazioni emotive.

Alla luce di queste considerazioni possiamo affermare che se restiamo aperti e disponibili alla relazione, alla reciprocità anche nella pratica educativa saremo in grado d’insegnare, prima ancora dei contenuti, il valore dell’interazione con l’altro e il vantaggio reciproco della collaborazione aspetti questi che nelle pratiche didattiche musicali sono ancora troppo spesso disconosciuti. L’autore a proposito scrive che “la scuola è una vera palestra per l’apprendimento dei codici delle interazioni sociali che verranno utilizzate non solo nell’incontro con gli altri bambini ma successivamente anche nella vita adulta”.

Il senso del noi è legato alla percezione di una connessione, ad una appartenenza sociale e culturale che rappresenta un ‘area di complicità condivisa dentro la quale l’empatia permette l’attivazione di un processo identificativo in quanto l’altro ci assomiglia e perciò viene assimilato al nostro essere.

In questo processo, scrive l’autore, i figli unici vivono un’ulteriore difficoltà in quanto si trovano al centro dell’attenzione e ciò produce lo sviluppo di atteggiamenti narcisistici che interferiscono con la scoperta dell’altro e del noi.

Eppure sappiamo che il nostro Sé si costituisce grazie alle relazioni significative che si stabiliscono già in fase prenatale come dimostrato dalle interazioni tra madre e bambino. Queste relazioni proseguono dopo la nascita, per mezzo del sonoro, attraverso il motherese che è il linguaggio tipico che si usa con i neonati plasmando il profilo melodico e prosodico ai fini comunicativi di scambio e di gioco. Questo tipo di linguaggio rappresenta una prima forma espressiva sonora a valenza comunicativa-emozionale ancor prima del valore semantico delle parole.

Tutte le diverse emozioni, le imitazioni, l’elaborazione si esprimono così attraverso le variazioni di altezza, ritmo e movimento sia da parte di chi invia l’informazione sia, per risonanza da chi la riceve. Oggi sappiamo che queste esperienze protomusicali sono determinanti non solo nel favorire adattamenti fisiologici ed emozionali ma anche nel delineare veri e propri modelli interattivi che acquistano una valenza significativa e socialmente condivisa. Si crea cioè una prima forma di scambio comunicativo costruito sulle variazioni prosodiche del linguaggio e del movimento con o senza parole e questa capacità di risonanza con l’altro si riattiva non solo con il neonato ma anche durante la crescita con i genitori prima e poi con i coetanei e con il gruppo sociale di appartenenza. In questo scenario l’influenza ambientale ha un ruolo primario che si esplicita prima nella famiglia e successivamente nel contesto sociale così come accade per la musica.  Infatti la percezione sonora dipende dalle esperienze musicali esperite dal soggetto che veicolano a sua volta le preferenze in termini di generi relativamente al piacere o meno di quell’esperienza.

Citando gli studi di D. Stern, l’autore illustra il concetto di sintonizzazione in termini di imitazione transmodale che ci permette di riprodurre lo stato d’animo e le emozioni sottostanti un comportamento dell’altro. Le interazioni relazionali, continua Ammaniti, nei primi anni di vita si costituiscono attraverso il Contagio, l’Empatia e la Mentalizzazione.

Anche qui potremo creare un parallelismo musicale.

Un primo momento di approccio alla pratica strumentale e vocale è quasi sempre un momento di imitazione: si riproduce ciò che ascoltiamo, ripetiamo il comportamento, il “come si fa”.

Contemporaneamente a questo l’azione formativa dovrebbe essere incentrata sulla capacità di entrare in risonanza Empatica con lo studente stimolando un’azione di autoempatia al fine di indagare su come ci si sente mentre lo si fa, quindi mentre si canta o si suona, quali sono le emozioni, lo stato propriocettivo, in una ricerca di risonanza affettiva con l’altro che mantenga integre le singole individualità.

In fine la Mentalizzazione, “la prospettiva cognitiva nei confronti dell’altro che consente di comprendere quali sono i suoi desideri e le sue intensioni”. Questa è certamente la parte più complessa in cui è possibile mettere a fuoco i pensieri relativi al come lo studente ha percepito di aver realmente fatto in termini di produzione sonora: è stato facile, difficile, c’è un senso alto o basso di autoefficacia, per come lo studente si sente e percepisce l’agio di poter comunicare al proprio insegnante per confrontare i propri e gli altrui desideri e intensioni. Tutto questo osservato in un’ottica di reciprocità e relazione ci può far sentire il valore di una conferma personale così importante quando s’intraprende lo studio di uno strumento musicale. L’essere accolti per come siamo con tutte le incertezze e le fragilità tecniche, emotive, senza sentirsi inefficaci o inadeguati relativamente al compito da svolgere. In merito a questi pensieri desidero aprire ad alcune considerazioni di ordine pedagogico che possono offrire ulteriori spunti di riflessione. L’insegnante in questo contesto potrà lavorare per costruire una didattica che si muova sulla dinamica del rispecchiamento in cui l’altro è uguale e diverso da sé in uno spazio temporale dove l’ascolto, lo sguardo e la risonanza empatica liberano dalla paura dell’errore che troppo spesso paralizza e inibisce la pratica musicale. Sarà un insegnante disponibile a lasciar accadere le cose, ad osservarle senza anticiparle non sovrapponendosi allo studente curando una qualità di sintonizzazione empatica capace di stare anche nelle situazioni di disagio, sconforto, incertezza, in una attenzione costante alle diverse istanze personali e libera dal giudizio e dalla valutazione. Un’ utopia? Forse, ma forse possibile e praticabile più di quanto si potrebbe pensare.

Il nostro viaggio volge al termine ma speriamo che le suggestioni trasmesse in queste righe possano produrre altri quesiti e curiosità da soddisfare. La lettura del libro NOI, perché due sono meglio di uno, rappresenta a mio parere un’ottima occasione per riflettere e pensare il mondo dell’io e il mondo del noi nella vita così come nell’insegnamento e nella pratica musicale.

 

Alessandra Seggi

 

 

MASSIMO AMMANITI

Neuropsichiatra infantile e psicoanalista, tra i più autorevoli psichiatri italiani, è professore onorario della Sapienza Università di Roma. Tra i suoi libri: “Nel nome del figlio” (Mondadori, 2003), “Pensare per due. Nella mente delle madri” ( Laterza, 2009) e “La nascita dell’intersoggettività” (con V. Gallese, Cortina, 2014). Collabora a “Repubblica”.

 

NOI perché due sono meglio di uno – Ed Il Mulino 2014 Bologna